Endelea: etica e made in Italy. Come coniugate con un metodo trasparente l’artigianalitá africana e la moda italiana, vostra cifra stilistica?
Le collezioni sono il nostro “ponte” visivo tra due mondi lontani come Italia e Tanzania. Il design e la modellistica sono fatti a Milano, la scelta dei tessuti e la manifattura a Dar es Salaam, ma le fasi si sovrappongono e gli scambi tra i due team sono costanti in ogni momento della vita di un capo Endelea. Gli stessi capi sono il risultato di questo dialogo tra culture diverse: la scelta stilistica è di far parlare sempre molto il tessuto, che in quasi tutti i capi è abbondante e protagonista, impreziosito da piccoli dettagli che rimandano all’eleganza made in Italy – una ruche, un bottone dorato, una balza.
Ogni capo, poi, racconta non solo la storia del tessuto – che sia Maasai, wax o kikoi, è sempre profondamente radicato nella cultura africana – ma anche quella di chi l’ha cucito. Le ragazze del team sono presenti sul sito e sui social, vengono retribuite 96% in più rispetto allo stipendio medio della Tanzania, ricevono assicurazione sanitaria per loro e le famiglie e corsi di formazione e di empowerment. In più, una percentuale delle vendite di ogni pezzo della collezione permette a Endelea di attivare programmi formativi con le scuole e le università di Dar es Salaam a supporto di studenti e giovani designer.
Ci parlereste del vostro iter produttivo?
La ricerca, il design e la creazione dei capi campione vengono svolte in Italia, a Milano, da un team interamente al femminile. I cartamodelli viaggiano in Tanzania insieme alla responsabile della produzione, che forma le sarte e i sarti su come va realizzato ogni capo. Nel frattempo, la responsabile tanzaniana si coordina online con la designer italiana e attraverso questa connessione vengono scelti i tessuti, che sono acquistati dai piccoli rivenditori nei mercati di Dar es Salaam, nel caso dei wax, o scelti dal produttore certificato Sunflag nel caso dei Maasai, o ancora prodotti apposta per noi da laboratori fair trade locali quando lavoriamo con kikoi o tie dye. Il team tanzaniano quindi crea il campionario, e una volta approvato quello, si parte con la produzione vera e propria. Le quantità sono piccole, gli sprechi ridotti a zero: i tessuti di scarto sono trasformati nei packaging con cui viaggiano i capi, e gli avanzi più piccoli sono cuciti insieme e lavorati al telaio da Mama Kishimbo, che li trasforma in bellissimi tappeti. I capi finiti viaggiano dalla Tanzania a Milano: qui vengono preparati da Giuseppe, il responsabile del magazzino, che usa solo buste compostabili e carta riciclata per le spedizioni.
Una mission aziendale nobile, che valorizza una cultura bellissima che sempre più si integrerà con quella italiana. Certamente un brand proiettato nel futuro. Che idea hanno le vostre sarte dell’Italia?
È una bella domanda, la farò a loro. Quando abbiamo iniziato a lavorare insieme, tre anni fa, per le ragazze l’Italia era solo terra di calcio e di papa Francesco. Abbiamo iniziato a raccontare il nostro paese con la cosa più facile: la pizza. Ogni volta che c’è una festa da celebrare, o che qualcuno del team Italia riparte, prendo enormi quantità di pizza (ahimè, da Pizza Hut) e questa è ormai la nostra tradizione. Nelle pause si chiacchiera sempre, ed è un’occasione perfetta per confrontarsi su come si fa una cosa qui e come si fa lì – parliamo tanto di moda, di musica e di celebrities, ma anche di politica e di diritti umani, in un paese dove le donne sono ancora pesantemente discriminate e l’omosessualità è reato. Cerchiamo di usare le parole per aprire loro un orizzonte che non sia solo geografico, ma anche culturale. Quando riusciamo, proviamo a far viaggiare le persone davvero: Rose nel 2021 ha passato un mese con noi a Milano, lavorando fianco a fianco con l’ufficio stile, ed è stata un’esperienza indimenticabile per tutte, che certamente ha cambiato in meglio il modo di lavorare insieme. Conoscere una cultura diversa significa averne meno paura, abbatte i pregiudizi, crea le basi per amicizie profonde.
Un traguardo saliente di Endelea é stato certamente la partecipazione alla Milano Fashion Week. Vorreste parlare ai miei lettori di questa esperienza?
Essere alla Fashion Week è stato una sorta di rito di passaggio per Endelea: “non siamo più un progetto ora, siamo un brand”. Ha aiutato a dare consapevolezza a tutte, dalla CEO alle sarte, sul potenziale di quello che stiamo facendo e ci ha fatte sentire parte di un sistema che, per quanto per tanti aspetti sia ancora molto diverso da noi, sta iniziando a capire l’impatto che crea su persone e ambiente e sta cercando di cambiare. Speriamo che il fatto che Endelea fosse uno dei cinque Designers for the Planet serva a far passare il messaggio che la moda sta prendendo coscienza dell’importanza delle persone lungo la filiera. Comunicare i progetti come il nostro serve a dare l’esempio anche ad altri. Siamo molto grate a Camera Moda per questa opportunità e speriamo che possano esserci altre occasioni come questa in futuro.
Perché secondo il vostro parere oggi necessariamente ( e mi trovate d’accordo) la creazione di moda deve avere un approccio etico e solidale?
Perché l’approccio etico dovrebbe essere comune a tutto, non solo alla moda! Ogni acquisto che facciamo come consumatori ha un impatto, su persone e pianeta, che può essere positivo, negativo o neutro, e questo vale da sempre e, appunto, non sono per il settore della moda. Quest’ultimo deve prendere coscienza dell’aumento smisurato delle produzioni, delle dinamiche sbagliate introdotte dal Fast Fashion su consumatori e su chi lavora lungo la filiera, e del fatto che la moda è oggi una delle industrie maggiormente inquinanti del pianeta. La soluzione deve essere di sistema: bisognerebbe da una parte offrire sempre più alternative etiche e sostenibili a chi compra, e dall’altra fare informazione perché le persone capiscano la differenza tra i diversi brand e i diversi impegni. Il rischio oggi purtroppo è che la “wake up call” verso la sostenibilità si stia pericolosamente appiattendo verso una gara a chi ha i budget marketing più sostanziosi e si stia svuotando il tema del suo vero significato.
Potreste parlare ai miei lettori delle vostre fantastiche stampe africane, magari raccontando qualche aneddoto culturale legato ad esse.
Le stampe wax che comunemente chiamiamo “africane” hanno una storia lunga e molto caratteristica dello spirito africano, secondo me. Wax è un termine con cui si identifica una categoria di tessuti in cotone dai colori sgargianti, stampati a macchina usando resine a cera. La loro storia ha inizio nell'Ottocento nelle Indie orientali olandesi, l'Indonesia, dove i tessuti erano colorati dalla popolazione locale usando la tecnica batik. Il tentativo degli europei di riprodurla a macchina per ottenere tessuti da vendere a basso costo portò alla nascita di una versione imperfetta del batik: dove la cera si incrinava venivano a crearsi puntini e macchioline che agli indonesiani non piacevano ma agli africani sì, perché capaci di apprezzare il fatto che ogni stoffa fosse diversa dall'altra. Il gusto delle donne dell'Africa occidentale contribuì all'evoluzione delle stampe verso tavolozze più brillanti e motivi particolari, anche legati a proverbi ed eventi locali. Il wax era come un libro aperto: ogni disegno aveva un nome, un significato e una storia – spesso inventata dal venditore – e dunque diventava un messaggio da lanciare con il proprio abbigliamento. Oggi sono i clienti a dare ai disegni un significato, collegandoli alla politica e alla vita quotidiana, ai sogni e alle speranze.
Pur essendo un brand così giovane avete già riscontrato un grande successo di pubblico. Sicuramente una cosa molto gratificante. Cosa rende vincente il vostro modello di business?
Credo possa essere questa combinazione unica di tessuti africani, design italiano e missione etica. Non sono molti oggi i progetti di moda che riescono a unire questi tre elementi e a veicolare tante storie in un solo prodotto – la mia storia personale di italiana che lascia un lavoro a tempo indeterminato per andare in Africa; la storia delle ragazze del team africano che crescono insieme a Endelea; la storia degli studenti di Dar es Salaam che supportiamo con il ricavato delle vendite; la storia dei tessuti tradizionali – Maasai, wax, kikoi – e di chi li fa… fino ad arrivare alla storia delle nostre clienti, che la condividono con noi sui social e nei pop-up shop. Quello che facciamo è molto di più di un semplice vestito, e credo che questo messaggio alle persone arrivi. O almeno lo spero!
Ad una giovane creativa afrodiscendente cosa consigliereste per intraprendere una carriera nel sistema moda? Intendo dire, sappiamo bene che la moda é un mondo pionieristico dove l’inclusione é da tempi non sospetti una priorità. In questo particolare contesto storico che stiamo vivendo a livello globale cosa può fare la differenza per distinguersi.
Sicuramente il fatto di essere autentici, e di chiedersi bene il “perché” di quello che si vuole fare prima ancora del “come”. Una creativa afrodiscendente oggi ha opportunità che prima non aveva, grazie a internet e a questo mondo connesso in tutti i sensi in cui viviamo. Faccio spesso mentoring ad altre founder e anche a founder africane e quello che ripeto a tutte è sempre: trova la tua storia, capisci bene a chi la vuoi raccontare, lavora sui numeri perché il modello di business sia sostenibile, e non aver paura dei tuoi sogni.
Infine, avete un motto che é la vostra filosofia di vita? Lo condividereste con i nostri lettori?
Il nostro motto è appunto Dream Bold. Suggerisce proprio questo concetto di non aver paura dei propri sogni: una delle frasi che mi hanno spinta a creare Endelea diceva “if your dreams don’t scare you, they’re not big enough”. Spesso interpretiamo la paura come un segnale che sia meglio lasciar perdere, mentre credo che a volte la paura sia solo segno di intelligenza che ci dice che ci sono dei rischi e non li stiamo sottovalutando. La vera differenza sta quindi tutta in quel “bold”: nell’istinto di cominciare nonostante tutto, anche se si è spaventati, e di sognare in grande, puntando al miglior risultato possibile.